India
Il canto degli dei
Lungo molti anni, a grande prezzo, viaggiando attraverso molti paesi, andai a vedere alte montagne, andai a vedere oceani. Soltanto non vidi dallo scalino della mia porta la goccia di rugiada scintillante sulla spiga di grano. (Rabindranath Tagore)
Da Delhi a Varanasi, nel cuore dell’India più spirituale e vera.
Ritorno a Jaipur, nel Rajasthan, nell’India nord occidentale. Poi Agra e Khajuraho per il Festival delle Danze nei templi. E un’esperienza di qualche giorno a Calcutta, nella Città della Gioia, per toccare con mano la mia fortuna, ricevuta in salute e benessere.
Era domani ed è già finito. Di nuovo a casa come dentro ad una bolla di sapone. Non ci sono rumori qui, niente clacson, grida, nessuna cagnara la notte. Né la mattina ancor prima dell’alba posso sentire i lavandai sbattere i panni sulla pietra. E’ tutto ovattato. Nel perfetto silenzio ricordo. Devo solo riavvolgere il film e mettere in ordine le immagini. Colori, tutti i colori che riesci a immaginare, odori, fame, spazzatura e corvi, cani, rogna e rabbia, vacche e topi, galline vive e ammazzate, maiali, sputi, clacson, biciclette e risciò, moto, autobus, sorrisi, polvere, incenso, fiori, sari, caldo, vento, ghat, preghiere, stelle, risaie, bambini e Shishu Bhavan, malati e Prem Dan, amore, povera gente, bellissima gente…
A Delhi mi svegliano due merli indiani sul davanzale della finestra. Traffico caotico ma non tanto quanto lo ricordavo. C’era più caldo, più umido, più rumore. Macchie colorate dei sari di gruppetti di ragazze con i veli in testa. Colori molto brillanti, smeraldo, turchese, giallo, oro, rosa, glicine. Pochissimi i profumi, quasi per niente. Forte odore di pipì dove gli uomini scambiano muri e marciapiedi per gabinetti. Naftalina. Qualche spezia. Cielo blu senza nuvole, temperatura ideale, venticello. Solo presso la grande moschea Jama Masjid anche i risciò si sono bloccati. E’ così frenetico che tutto si ferma. Nemmeno più lo spazio per mettere i piedi.
L’antica città fortificata di Jaipur, dipinta di rosa, deve tutto al grande maharaja guerriero e astronomo Jai Singh II. Notevolissimo il Jantar Mantar, l’osservatorio astronomico del 1728. E’ il più grande dei cinque fatti costruire da Jai Singh. Meridiane di ogni misura mandano in cielo braccia dalle linee purissime. Paiono opere d’arte moderna.
Del Hawa Mahal, il palazzo dei venti, resta solo la facciata. Cinque piani di finestre a nido d’ape in arenaria rosa.
E’ sera. Ho perso i miei pensieri. Non è facile tornare ai nostri standard. Difficilissimo descrivere cosa c’è fuori. Una vita apparentemente senza regole, ferma da mille anni. La città più inquinata e rumorosa di tutta l’India. Bellissima. O da non sopportare. Basta poco, poi ti abitui. Ma sapere qual’è il mondo vero… Tantissime le vacche sacre. E i contadini con l’erba. Compri l’erba, nutri le vacche, nutri l’anima, vai in cielo. E maiali. Famiglie intere di maiali dal colore della terra, col muso nella terra alla ricerca di qualcosa che evidentemente non si trova. Oggi sento poco l’odore dell’India. Rivedo le strade in una nebbia di polvere, fari evanescenti che si ingigantiscono, avverto il pericolo, lo scontro poi… niente. La scena si ripete in un frastuono di clacson. Il clacson ormai non è importante, fa parte del rumore di fondo. Vivere in un mondo frenetico. Scorre la vita e non la si afferra. Vivere per la strada. Colpisce il modo in cui si viaggia. Sei mai entrato in uno ‘sciame’ di pesci? Nessuno si tocca, come avessero un radar… Musica, canti e tamburi. Una grande festa, la notte. Lontani fuochi d’artificio, siamo nel paradosso. Siamo tutti uguali e tutti differenti. Come le impronte digitali.
Appese ad un bilanciere coloratissimo per i mille addobbi, le brocche non possono mai toccare terra. Così pellegrini indù in fila lungo la strada, a piedi trasportano l’acqua del Gange. Si danno il cambio ma continuano a camminare giorno e notte per portare l’acqua al tempio di Shiva, per il bagno. Hanno già percorso 300 chilometri. Ne restano solo cinquanta.
Sono in un sottoscala ad Agra, in un mondo all’opposto. Vedo di collegarmi ogni sera se posso. Di internet ce ne sono tantissimi ma è tutto molto lento qui. A volte riesco solo a leggere, poi manca il tempo per tutto.
Il Taj Mahal, volontà dell’imperatore Shah Jahan, è lo straordinario dono d’amore di quest’uomo per l’amatissima moglie Mumtaz Mahal, morta di parto nel 1631. Il maestoso palazzo di marmo bianco è uno splendido esempio dell’arte moghul. Si leva imponente da una piattaforma quadrata, agli angoli quattro minareti. Le pareti sono ricche, decorate con lunghe citazioni dal Corano e con rilievi scolpiti. I lavori per la sua costruzione durarono vent’anni e richiesero l’opera di 20.000 uomini e artigiani provenienti dall’India, dall’Asia centrale e dall’Europa. Perfetta la simmetria. Sicuramente il mausoleo più fotografato al mondo.
“The world is divided into two camps” disse Mark Twain, “those who have seen the Taj Mahal and those who haven’t”. Più romantico, Tagore lo descrisse come una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo.
Shah Jahan trascorse i suoi ultimi sette anni prigioniero nel Forte Rosso. Di fronte, dall’altra parte del fiume Yamuna, la tomba della moglie.
Fra le zanzare, ad Orcha, in un hotel ricavato da un antico palazzo. Crolla a pezzi, ma è bellissimo. La felicità non la si trova in una vacanza indiana. Sono serena ma mi mancano mille cose, altre mille le ho.
L’India è cambiata, niente di quello che ricordavo. La gente vicino al turista si guasta. Saremo guasti noi? Tutto me lo fa pensare. Sulle strade non c’è più asfalto. Oggi abbiamo forato due volte. Arrivati a meta questa sera tardissimo.
Sporco ovunque, appiccicoso, sudato. Non riesco nemmeno a mettere le mani fra i capelli. Le mie dita sembrano aver scavato carbone. Sono lercia come un topo… e poi incontro donne bellissime, coperte da veli dai mille colori, splendenti nella polvere rossa, nelle strade di spazzatura. Brillantino al naso. Grovigli di fili elettrici. Calessi, famiglie intere su una moto. Case pollaio. Mosche dappertutto. Fuochi accesi ai ristoranti. Nonni coi piccoli in braccio seduti per terra. E’ l’ora più viva. Il sole è rosso. Capre, buche grosse. Tutto tanto, tutto sporco, tutto vecchio, tutto rotto. Dolci, uomini, tosse. Canzoni sparate fortissimo, senza sosta, senza interruzione. Pepsi blu, Limca, acqua Bisleri. Rapaci in volo, nuvole. Pecore, color… white, white, white, white, white…
Niente sole oggi. Solo polvere come nebbia. Dieci ore di macchina ed un unico grande momento. Un incontro di belle persone indaffarate in una artigianalissima produzione di zucchero da canna, sul bordo della strada. Canna, succo, il liquido che bolliva dentro un pentolone sopra un buco nella terra, il fuoco sotto. Decine di bambini attorno. Non avevano niente ma erano felici.
A Khajuraho fra templi e figure erotiche. Fa un gran caldo, ventilato. Estate piena ma molto, molto piacevole. Sono appena tornata dalle danze. Splendido lo sfondo del tempio illuminato di rosso sul nero della notte. Fra poco al ristorante. Tipico ristorantino indiano. Ieri sera non mi andava di cenare. Ho abbandonato per un momento i miei due amici per ritrovarli poco dopo davanti ad un piatto di spaghetti all’arrabbiata. In India! Pentitissimi, si sono poi rifatti con burro e toast…
E’ un piccolo villaggio adesso, ma fu grande capitale al tempo della dinastia Chandela, tra il IX e l’XI secolo. E’ una fra le mete più frequentate dai turisti, particolarmente conosciuta per i templi ornati. Gli scultori hanno rappresentato molti aspetti della vita quotidiana di allora ma soprattutto donne, dee e sesso. Figure erotiche a riproporre tutte le posizioni del Kamasutra. Danzatrici di grande bellezza. Creature mitologiche.
Degli ottanta e più templi originali una ventina sono tutt’oggi splendidamente conservati. Stupendi esempi di architettura indo-ariana, sono dedicati a Shiva, Vishnu, Surya.
Cacca di vacca. Qualcuno ha pensato di insegnare il termine ai nativi. Così adesso te lo sanno dire. Viene impastata con altra erba secca, in forme rotonde e piatte come un chapati. Vengono stese al sole ad asciugare, poi impilate ad incastro secondo angolazioni diverse e parallele. Formano cataste, piccoli covoni davanti casa, graziosissimi. I mattoncini secchi serviranno per accendere il fuoco in mancanza di legna. Ciascun villaggio utilizza uno schema proprio. Alla fine il risultato è regola, armonia, arte. Una ricchezza fatta di sola cacca di vacca.
A Varanasi siamo pellegrini per davvero. Qui ci muoviamo solo col tuc-tuc, la nostra ape-car, in un traffico di risciò allucinato.
Varanasi, Benares, la città di Shiva. Sulla riva sinistra del Gange è una delle principali capitali religiose del mondo, città santa della religione indù, meta di pellegrinaggi fin dal VII secolo. La città vecchia si estende in un labirinto di vie strettissime percorribili solo a piedi, un grande bazar. Ampie scalinate, i ghat, permettono ai pellegrini di immergersi e purificarsi nelle acque del fiume sacro. Si scende in preghiera ogni mattina. Si effettuano i riti funebri, le cremazioni. Si lavano i panni.
Vita e morte sul fiume. Pochi momenti per rendermi conto di quanto sono niente. I corpi bruciano. Gli arti che si staccano per essere ributtati sul fuoco hanno lo stesso colore nero del legno già consumato. Una campana segnala l’arrivo di un altro corpo e tutto si ripete. Sudario bianco se uomo, oro-arancione per la donna. Acqua del Gange, legno di baniano, polvere di sandalo e olio di burro. Fuoco. Tutto torna polvere, poi ancora al fiume. Siamo niente se non adesso. Quante volte ce lo siamo detto? E quello che non ti dico oggi domani potrai mai saperlo?
Ci vuole tantissima legna per portare a termine una cremazione e i costi sono molto alti. Chi non se la può permettere brucerà solo in parte, ed in parte sarà facile preda dei cani che pronti nell’acqua aspettano solo quello…
Come al tempo dei cercatori d’oro qualcuno setaccia gli avanzi, le ceneri che galleggiano, nella speranza di trovare capsule di denti rifatti, orecchini lasciati al corpo.
Chi puro lo è già, i bambini sotto i dieci anni, le donne in gravidanza, chi è stato morsicato da un cobra, i sadu, loro non verranno bruciati ma abbandonati al largo, dati interi alle acque del fiume.
All’ombra degli ombrelloni dei ghat il tempo è fermo o sembra non esserci proprio. Aquiloni alti e lontani si confondono nel volo con gli uccelli. Spose tutte uguali, nascoste da un pesante manto rosso ricamato di oro, vengono al Gange dopo il matrimonio per la preghiera, poi vanno al tempio vicino. Solo dopo questo rito potranno considerarsi veramente sposate. Giovani e tristissime, qualcuna piange.
Mi scotta la faccia per il sole e per il freddo di questa sera, seduta sui ghat per ore per cercare di capire qualcosa delle loro puja, senza peraltro riuscirci.
Penso ad un amico lontano, al sole che è uguale in ogni parte del mondo.
Poi il treno della notte, verso Kolkata.
Letture consigliate:
– India del Nord, guide edt
– India, di Pietro Tarallo, Clup guide
– L’India mistica e leggendaria, di Louis Frédéric, Neri Pozza Editore
– Ritorno dall’India, di Abraham B. Yehoshua, Einaudi Tascabili
di Francesca Chiolerio – marzo 2003
Pubblicato su: Avventure nel Mondo – Semestrale, Anno XXXI – n. 2 – Luglio-Dicembre 2004