Yemen
Nel paese delle mille e una notte
Braccio teso, mano a pugno e pollice ritto rivolto verso l’alto, Ahamèd ripete gioiosamente “Al-Man-sur! Al-Man-sur!”. Ahamèd Al-Mansur, il Vittorioso, così abbiamo soprannominato il nostro piccolo autista, 42 anni non molto ben portati in verità. Siamo in tanti oggi qui nello Yemen, una trentina di italiani stipati in sei Toyota Land Cruiser allineate in una lunga carovana al seguito di un pick-up armato di mitragliatrice e zeppo di soldati, Kalashnikov a tracolla e colpo in canna, la nostra scorta antisequestro. Ahamèd è il migliore fra gli autisti; lui le mani sulle ragazze non le ha mai allungate. Silenzioso, serio, molto professionale, poche chiacchiere, otto figli e un’attenzione particolare per la moglie che chiama “Madame”; parla solo arabo e ci intendiamo a gesti; così quando ci regala i suoi biscotti casalinghi a forma di fiore coi semini dentro, né dolci né salati, per ricompensarci di un bocconcino di torrone, unisce le punte delle dita della mano destra, se le porta alla bocca e schiocca un bacio… “Madame”! E gli brillano gli occhi. Con l’universale linguaggio del corpo ci comunica il suo amore per la donna che ha sposato quasi senza conoscere; ah l’amour, la più nobile debolezza dello spirito; l’avessi mai ricevuto io, un dono d’amore così! La sposa generalmente viene scelta dalla mamma o dalla sorella maggiore del ragazzo; il matrimonio è un semplice contratto e basta il mutuo consenso dei promessi davanti a due testimoni; solo otto giorni dopo seguiranno le feste che lo celebrano.
Davanti bene in vista, Ahamèd tiene il genbìe, il pugnale ricurvo che tutti gli uomini ricevono in regalo dalla famiglia, alla pubertà; è infilato in un’alta cintura che cinge alla vita un camicione di cotone lungo fino alle ginocchia; il resto delle gambe è nudo, porta solo scarpine o infradito, niente calzini, niente calzoni; sopra il tutto indossa una giacca di taglio prettamente europeo e, senza insistere sul colore, il risultato è persino elegante! I capelli sono rasati, così come ordina ai musulmani il Qoràno – il testo sacro fondamentale dell’Islam, la lettura per eccellenza – ed in testa ha un somata bianco e rosso legato a turbante ma con due angoli liberi di cadere sulla schiena. La barba a pelo raro, regalo genetico ai climi caldi, è portata corta; vanto orientale, è segno di virilità, libertà, ricchezza fisica e morale ed è tenuta in grandissima considerazione tant’è che una promessa fatta toccandosi la barba equivale quasi ad un vero e proprio giuramento. Lo spazzolino da denti sempre pronto è un ramoscello di musuak, legno duro ma filamentoso che ricorda nell’aspetto la nostra liquirizia, ed è usato a mo’ di pennello dopo aver tolto ad un’estremità un pochino della sua corteccia.
La popolazione dello Yemen è raggruppata in tribù o clan, il fondamento sociale, e vive perlopiù in città o in piccoli villaggi dove l’agricoltura rappresenta l’attività principale. Il gruppo dominante è quello arabo. Lo âràb (forte, coraggioso, svelto) è l’arabo puro sangue che abita le città, di carnagione chiara, è molto intelligente ma un po’ effemminato.
Il quabìli (uomo della tribù) è l’arabo puro sangue che abita la montagna, di colorito più scuro del fratello cittadino, è coraggioso, energico, dedito al lavoro, di ottimi costumi, ha un’aria nobile e sguardo serio, è molto virile e di poche parole; corrisponde un po’ al nostro contadino. Ahamèd potrebbe essere un quabìli, come peraltro lo è la maggior parte della popolazione yemenita. Il bedù (da bàdi, campagna) è l’abitante del deserto, nomade, di colore rosso-bruno quasi nero, probabile frutto di un’antica unione arabo-abissina. I bedù sono alti e robusti, liberi e indipendenti, di buon cuore e dignitosi, non conoscono etichetta ma hanno costumi puri e rispettano in modo particolare il legame nuziale; sebbene musulmani, il loro è un islamismo primitivo: «Non facciamo la preghiera perché non abbiamo l’acqua per le abluzioni; non facciamo elemosine perché siamo poveri; da noi non si digiuna durante il Ramadhàn perché digiuniamo tutto l’anno; noi non andiamo alla Mecca perché Dio è ovunque». Chi potrebbe dar loro torto? E grazie ad abitudini alimentari frugali e moderate (latte, datteri, niente alcolici) soffrono di pochissime malattie ed invecchiano felicemente. Non sbagliano mai quando fanno da guida e da scorta a chi viaggia nel deserto, dove le strade non sono che tracce instabili che basta il vento a cancellare. Ma a dispetto di queste belle qualità, e siccome tutto il mondo è paese, così come noi diciamo villano o paesano, anche qui per insultare qualcuno si usa dire “bedù”.
Il fatalismo musulmano non ammette altro che la volontà di Dio in ogni cosa, così le frasi parlate che si sentono ripetere più spesso sono «In sciâ Allàh», voglia Iddio e «Ma sciâ Allàh», Iddio non voglia, che vengono pronunciate in modo quasi scaramantico; gli arabi credono anche nel malocchio e si procurano potenti talismani per impedirne gli effetti; il più pregiato è la copia di qualche versetto del Qoràno; Ahamèd l’aveva racchiuso in una bustina di seta rosa appesa allo specchietto retrovisore della jeep.
E che dire delle donne? Ne ho incontrate molte e tutte assieme una sera al mercato di Al-Mukalla, fagotti informi che di visibile, attraverso il velo, avevano soltanto gli occhi. Ma che occhi! Grandi, neri, vivacissimi, a volte accuratamente truccati, ci scrutavano curiosi. Tantissime le bancarelle: biancheria intima ultra-coprente al di fuori di ogni tentazione; braccialetti, collane e diademi tanto assurdi quanto scintillanti; farfalline colorate dalle ali mobili e splendenti che avremmo poi rivisto fra i capelli delle bimbe vestite a festa nei giorni successivi la fine del Ramadhàn; tuniche nere più o meno ricche e ricamate con veli adeguati; stoffe colorate; e, tutte assieme a fare spese, una moltitudine di donne senza uomini e senza figli.
Ma l’effetto più gustoso e divertente è stato come queste sconosciute si avvicinavano per comunicarmi la loro approvazione, magari per il velo che mi stavo provando, e mi trasmettevano con cenni del capo o con un lieve tocco della mano sul braccio, pur senza parole ma con grande confidenza, forza e naturalezza, un sentimento che non saprei definire se non di complicità, qualcosa difficile da provare e ancor più da descrivere, ma che mi ha fatto profondamente sentire partecipe di quel mondo femminile non debole e non nascosto, bensì dominante.
Ne ho conosciuta una nell’intimità della propria casa, la bella Francisca; in realtà il suo nome è molto diverso, ma un’amica italiana le aveva parlato della chiesa di Santa Francesca Romana dove le ragazze amano andare a sposarsi e così ne ha adottato il nome.
La sua famiglia è proprietaria di un Funduq a Shahara, inaccessibile villaggio fortificato nelle montagne del Nord, costruito su due alture collegate da un impressionante sputo di ponte (ormai simbolo del paese), ingegneria ardita e poche pietre sospese sopra una profondissima gola a sfidarne la gravità; qui si trovano ancora ottimi modelli dell’originale, primitiva urbanistica montana, case di pietra a più piani ma con poche ed essenziali decorazioni di calce bianca attorno alle finestre; molte le cisterne per l’acqua scavate come anfiteatri nella roccia; ed una veduta mozzafiato e spettacolare sulle coltivazioni di qàt nei fitti terrazzamenti che scolpiscono il ventaglio dei monti; gli abitanti dovrebbero essere fra gli yemeniti più riservati, ma non lei.
Arriviamo nel tardo pomeriggio e ci sediamo sui materassi allineati attorno alle pareti dell’unica grande stanza per gli ospiti, ed-divàni; tantissimi i cuscini usati come schienale; sul pavimento stuoie e tappeti; è sala da pranzo o camera da letto a seconda delle occasioni; ed ecco che compare un goffo fantasma nero e scalzo; strana la voce, un vocione direi se paragonata all’altezza di quell’apparizione, e la risata un pochino… disorientante. Dopo cena ci aspetta nella sua stanza per l’henné, ma solo le donne, ed in quell’occasione si “svestirà”.
Dopo essere andati a guardar le stelle … e perché le stelle? Perché ci portano a riflettere, così lontane, misteriose, risplendenti da tempi immemorabili; o per amore, come diceva un piccino tempo fa: “se tu vuoi bene ad un fiore che sta in una stella, è dolce, la notte, guardare il cielo…”; o forse perché “lo spettacolo di un cielo stellato colpisce ogni uomo riflessivo”, come diceva un poeta; ma sempre, sempre con un senso di stupore, rispetto e turbamento.
E così, dopo aver guardato le stelle, quelle fisse e le cadenti ed espresso ognuno il proprio desiderio, saliamo da lei: ancora materassi e cuscini ma anche un bel marito che, mollemente sdraiato su una pila di stuoie, accumula poltiglia di qàt nella guancia sinistra e ricopre sempre più un pavimento già ingombro di rametti ormai spolpati. E finalmente lei si “svela”: è minuta, molto bellina, furba e maliziosa, visetto da scugnizzo; con la scusa di tenere a bada i nostri ragazzi che intanto stanno morendo di curiosità e fanno una gran cagnara là fuori, si affaccia continuamente sul corridoio per ridere in quel suo modo particolare e un po’ sfacciato… poi rientra ed inizia a giocare con noi ed il marito; uno show imperdibile… è l’arte della civetteria! Mastica chewin-gum mentre ci disegna mani e braccia, noi facciamo domande, lei risponde in italiano stiracchiato poi traduce al marito, tutto in modo così delizioso: quanti anni ha? È molto vecchio! Sì, ma quanti? Trentacinque. E tu, quanti anni hai? Venti; siamo sposati da tre mesi, e sono incinta da uno; lui ha già una moglie a Sana’a e dieci figli. Sei gelosa? Non risponde. Lo ripetiamo, forse non conosce il significato della parola. Ma la vede sempre la prima moglie? Sì, certo. E intanto si avvicina a lui, e mentre gli parla lo stuzzica con piccoli colpi di gomito e ride e un altro disegno e altre risate con noi e col marito che, occhi languidi, continua a succhiare e a sorridere muovendo solo e lentamente la testa e gli occhi, o una mano quando butta via l’ultimo ramoscello ormai nudo di qàt…
Il qât, la Catha edulis di Förskald, è la droga sociale, un blando stimolante che non dà assuefazione; viene usato quotidianamente da quasi tutti i maschi yemeniti adulti. Mentre si fuma o si beve acqua, se ne masticano le foglie tenere e fresche che vengono accumulate ad un lato della bocca, senza inghiottirle; la poltiglia provoca un abnorme rigonfiamento della guancia che, progressivamente all’aggiunta di nuove foglie, si vede crescere fino alla dimensione di una palla da tennis: disgustoso! Il succo della foglia dovrebbe essere inebriante, piacevolmente eccitante e potente afrodisiaco, ma già lo stesso Förskald ebbe a dire: “gustus tamen foliarum tantam virtutem indicare non videtur”; e così, forse, stimolante lo è per l’appetito, ma nel senso del mangiare; di sicuro è un buon diuretico ed aiuta a rimanere svegli per poi far cadere in uno stato di semi-depressione. Ma per i coltivatori i profitti sono esagerati e le piantagioni di qàt hanno purtroppo soppiantato quelle di cereali e di caffè; oggi tutto dev’essere importato dall’estero, il che conduce alla rovina economica del paese; le statistiche infatti dicono che, per queste foglioline, la maggioranza degli yemeniti si mastica da un quarto alla metà del proprio reddito totale, una vera maledizione.
E’ tempo di Ramadhàn (Ramazàn alla turca), nono mese del calendario lunare islamico durante il quale Maometto ricevette la prima rivelazione coranica. E’ un periodo di rigidissimo digiuno che ogni islamita è tenuto a praticare dai 14 anni; le prescrizioni dettate da Maometto si leggono nel Qoràno e anche oggi sono scrupolosamente osservate da tutti; solo pochissimi le trasgrediscono ed in tal caso in gran segreto. L’astinenza non è limitata solo al privarsi di sesso, cibo o bevande ma si spinge fino alla proibizione di fumare, sniffare tabacco o respirare profumi; un tempo i più arditi non osavano neanche inghiottire la propria saliva. Sono dispensate le donne incinte, gli ammalati o chi si trova in viaggio; ma ho visto l’inflessibile Ahamèd permettersi unicamente qualche mandarino per dissetarsi, e soltanto nel deserto; è davvero difficile e penoso osservare rigorosamente questa legge con un clima così caldo. All’alba città e villaggi si svuotano, ma al calar del sole i minareti si illuminano e i muezzin annunciano l’ora della fine del digiuno ripetendo fino allo sfinimento, nostro e loro, il grido Allàh u Akbàr, Là Ilàh ìlla Allàh… Allàh è grande, non c’è altro Dio al di fuori di Allàh! E allora i caffè e le botteghe si svegliano e riprendono anima, i sùq si riempiono di gente impaziente ed affamata che ritorna alla vita; fantasia d’aromi, colori, voci e suoni… Allàh u Akbàr… è già nostalgia quel grido!
Letture consigliate:
– Yemen, guide edt.
– Yemen, guida vissuta AM, Guide Turistiche Calderini
– EL YÈMEN Un viaggio a Sana’a 1877-1878, di Renzo Manzoni, E.D.T.
di Francesca Chiolerio – febbraio 2002
Pubblicato su: “Spazio” – periodico di informazione e intrattenimento riservato al personale SPA – n. 5 – Maggio 2002